PARMA
PIACENZA
COLI
CASTELLO DI MONTECHIARO
QUATTROCCHIO
FERRARA
RAVENNA
MODENA
ORDINI MONASTICI REGOLARI ED ERETICI
Da "La badia di Chiaravalle della Colomba sul Piacentino: cenni storici" di Guglielmo Bertuzzi - 1905 - a pagina 53 si legge: "Reggeva il monastero della Colomba Guglielmo Quattrocchi, quando nel 1266 ..."
Da "La storia di Parma" di Ireneo Affo - vol. 4 - pag. 13 si legge: "Costanza d'Este fece vendita di certi beni all'Abate della Colomba Guglielmo Quattrocchio nell'anno 1276".
Dall'Archivio Vallardi Guglielmo risulta Abate gia' dall'anno 1252.
STORIA DELLA CITTA' DI PARMA-IRENEO AFFO-TOMO TERZO
ABATE GUGLIELMO QUATTROCCHIO
Lasciar non voglia di ricordare una pergamena spettante al giorno 10 di Marzo del 1276 da me veduta nell' Archivio del Monistero di Chiaravalle della Colomba , da cui s' imparan due cose , cioe' che Guglielmo Marchese Pallavicino figliuolo di Manfredo da Scipione aveva allora in moglie Costanza figliuola del Marchese Azzo d' Este gia' vedova di Uberto Conte di Maremma , e che questi due nobili Conjugi abitavano in una casa di loro diritto in Rivo Sanguinaro , dove la detta Costanza fece vendita di certi beni al P. Abate della Colomba Guglielmo Quattrocchio . Nel testamento suo appartenente al 25 di Marzo del 1252 a aveva il Marchese Manfredo commemorato il suo Podere di Rivo Sanguinaro, ed ora vediamo qual dei figliuoli suoi, che furono Guglielmo, Enrico, Uberto, e Guidotto ne avesse la proprieta' : continuandosi a scorgere ancora in vigore le disposizioni del vecchio Marchese Guglielmo padre di Manfredo, che a' suoi figliuoli diviso aveva i beni in maniera da farne loro possedere ad un tratto sul Parmigiano, e sul Piacentino.
Cantico delle Creature di San Francesco
Letto e interpretato da Paolo Demanincor - Musica Gilberto Quattrocchio (free download mp3)
La badia di Chiaravalle della Colomba sul Piacentino: cenni storici - di Guglielmo Bertuzzi - 1905
Pagina 120: - 1185 » Baiamonte Visconti. 1229 » Raineri. 1266 » Guglielmo Quattrocchi. 1311 » Goffredo. 1326 »
Pagina 138- ... cistercensi Diploma di Federico per la badia e le opere dell'abate Baiamonte... ed i monaci L' abate Guglielmo Quattrocchio.
Quattrocchio Alessandro sedette nel 1586 nel Consiglio Generale tra i nobili della classe Scotti. La famiglia si estinse alla fine del XVI secolo.
Fondo della famiglia Landi:
archivio Doria Landi Pamphiji
Pubblicato da Presso la Deputazione di storia patria per le province parmensi
Pagina 12: ... famiglia titolata Ugolino Quattrocchi; Calvo di la Sala di...
DIZIONARIO TOPOGRAFICO DEI COMUNI COMPRESI ENTRO I CONFINI NATURALI D'ITALIA di Attilio Zuccagni-Orlandini - 1861
PARMA - (Emilia). Prov. di Parma; circond. di Parma, mand. di Parma. Siede questa città in bella ed ubertosa pianura a poche miglia dell'Appennino e dal Po, ed a cavaliere del fiume omonimo che la divide in due parti, chiamate al di qua e al di lù dell'acqua, che si congiungono mediante tre ponti. E cinta di mura con bastioni ed ha cinque porte. La Via Emilia biparte la città tra porta S. Croce, e quella di S. Michele. Le strade sono generalmente simmetriche e pulite. È adorna di belle ed eleganti piazze, fra le quali distinguesi la così detta Grande. Tra gli edifici pubblici primeggia il palazzo Ducale, che se non presenta grandiosa magnificenza ha però molta eleganza, ed ha belli e principeschi appartamenti ; solido e grandioso edilizio è quello detto la Piletta, che contiene il museo d'antichità; la biblioteca ducale; l'accademia e la galleria delle belle arti ; l'anfiteatro farnesiano ; gli archivj dello stato, e la tipografia reale. Anche il palazzo del governo, e quello del comune sono di qualche considerazione. Grande, comodo e saluberrimo è l'edifizio delle beccherie. È anche ben fornita Parma di belle e assai comode abitazioni, e fabbriche di proprietà di privati. Magnifico ed elegante è il teatro reale. Oltre il giardino ducale, Parma è provveduta di pubblici passeggi e tra questi notevole è lo stradone cui è annesso l'orto botanico ed il castello. Tra le chiese è osservabile la cattedrale, il battistero a questa vicino, insigne monumento del medio evo, e la steccata nel cui sotterraneo sono racchiuse le ceneri della maggior parte dei dominatori di Parma. Ha una università ; scuole ; collegj ; istituti ; ospedali ; ospizj ; asili di beneficenza; conservatorj ; monte di pietà. Il territorio è fertilissimo, e non vi manca l'industria manifatturiera: amenissimi sono pure i suoi dintorni. Popol. 45,673.
ARTICOLO GIORNALE BANCA FLASH - ANNO II - n. 3 - 1988
notiziario riservato agli azionisti della
Banca di Piacenza.
Banche e banchieri nella storia piacentina
LA FORTUNA MEDIOEVALE DEI MERCANTI E
DEI CAMBIATORI PIACENTINI
"Pierre Racine, in uno dei suoi pregevoli studi sulla
storia di Piacenza, ha dimostrato che le prima pratiche bancarie medioevali
nascono e si sviluppano a Genova nella seconda metà del XII secolo. A
quell'epoca i piacentini hanno già rapporti economici con la città
ligure, ma solo di carattere esclusivamente mercantile, vendono fustagno lavorato
e comprano materie prime per il settore del tessile, allora in grande espansione,
oltre a cuoio e pelli. Una comunità di mercanti della città padana
si stabilisce a Genova per partecipare agli affari del porto e, con il tempo,
i singoli mercanti si diffondono anche nei porti mediterranei, specie a Montpellier
e a Marsiglia. Nei documenti notarili genovesi cominciano ad apparire i nomi
delle nobili casate piacentine: Anguissola e Bracciforti. Con lo sviluppo progressivo
del commercio europeo, grazie soprattutto alle fiere di Champagne, nel XII secolo
si affinano i metodi di prestito e di cambio: proprio in questo settore a Genova,
che all'epoca rappresenta il massimo porto di scambio tra Mediterraneo e continente,
i piacentini perfezionano - se non inventano, dice Racine - il contratto di
cambio. Raccolgono, cioè, il denaro su una piazza e, tramite un agente,
lo cambiano in una valuta differente su un'altra piazza, dove ad esempio, si
tiene un mercato, per poter evitare il trasporto del denaro. Il primo banchiere
citato nei rogiti notarili nel 1206 proviene da Rivergaro e non ne conosciamo
il nome, ma durante il 1200 affiorano i più importanti: Giovanni Ascherio,
Gregorio Nigrobono, Simone di Gualtiero, Guglielmo Leccacorvo che, con il socio
Leonardo Rozo, è quello più attivo.
Sulla piazza di Marsiglia sono invece presenti gli Anguissola, i Bagarotti,
gli Speroni, i Villani, i Bracciforti, i Quattrocchi
e gli Stravillani. La loro attività non si limita al cambio, ma si estende
al deposito, al credito per attività commerciale e al commercio medesimo.
Nella seconda metà del 1200 i piacentini cominciano poi a stanziarsi
in Oriente per poter commerciare direttamente in prodotti di lusso, spezie e
seta. Nel 1268 sono presenti ad Acri i piacentini Oberto Capitale, Lanfranco
Brixiense, Giacomo de Torsello, Giacomo de Tado e Fulcone de Rodico."
http://www.bancadipiacenza.it/banca_flash/html/numeri_prec.htm
BANCHIERI CHE OPERAVANO A MARSIGLIA NEL XIII SECOLO.
Anno 1225 - Nel medesimo mese la compagnia di Giovanni Pagano, Musso (Muzzo) Calderario, Feliciano Feliciani, Guglielmo Quattrocchio e soci, creditrice di somme importanti del Tesoro francese, oltre a compiere varie operazioni di cambio in fiera vende pellicce e panni, dà denaro a mutuo e terreno in affitto, compera case nei sobborghi di Marsiglia. Alla compagnia Piacenza dette pieni poteri per trattare gli affari comuni: Guglielmo Leccacorvo era uno di loro. Finalmente lo stesso comune di Piacenza si acconciò alla situazione tanto da servirsi del banco Leccacorvo per far versare una somma dovuta a Pagano Fieschi conte di Lavagna. In questo caso non è possibile dubitare che il pagamento fu eseguito.
BANCHIERI 1200 MILANO-PIACENZA
Economic Organization and Policies in the
Middle Ages -
di Michael Moïssey Postan, Edwin Ernest Rich, Edward Miller - 1963
I primi banchieri che operarono nel XII secolo
provenivano da Milano e Piacenza. Nella lista sopra sono riportati:
Milano: Amiconi, Borromei, Castagniuoli, Da Casale,
Da Fagnano, Del Maino, Della Cavalleria, Dugnano, Serrainerio, Vitelli.
Piacenza: Andito, Anguissola, Arcelli, Bagarotti,
Baiamonte, Bracciaforte, Burrini, Capponi, Cavessoli, Guadagnabene, Leccacorvo,
Negroboni, Pagano, Quattrocchi (Guglielmo Quattrocchio),
Bustigaccio, Scotti, Speroni.
Nell'Historia ecclesiastica di Piacenza - parte terza - Lib. XXII e' riportato che nell'anno 1345 il Terranera si trovo' in Piacenza per essere stato eletto in campagnia di Giovanni Quattrocchi e di Francesco Della Croce a curare come testamentario esecutore l'eredita' del Cavaliere Fra Bernardo Della Croce dell'Ordine della Militia di Nostra Signora.
1345 -
Ma per quinci ritorno al Terranera si trovo' quelli sul principio dell'anno
prossimo in Piacenza dove, per essere stato eletto in compagnia di Giovanni
Quattrocchio e di Francesco della Croce ad accurare, come testamentario
esecutore, l'eredita' del Cavaliere Fra' Bernardo della Croce dell'ordine (che
era allora in Piacenza) della Militia di Nostra
Signora; anche in questo affare per mera carita' di impiego'; e per soddisfare
quanto piu' tosto all'intenzione del defunto amico; egli, insieme con quelli,
fece nel terzo di Gennaio a Nicolo' Malpiedi, vendita di alcuni terreni situati
a Fodesta. (sulla riva del Trebbia).
Rogito Ioannis de Filijsmich.
1347 - Giunto il 1347
il Vescovo Roggero come apostolico collettore deputato del Papa diede principio
ad esigere la decima del sussidio per la guerra contro i turchi e promosse agli
Ordini certi chierici tra cui Ghearardo Quattrocchino
chierico di S. Michele da Camorato, cappella del plebato di S. Giovanni di Varone.
Rogito Ioannis de Filijsmich et Gabrielis Mussi.
Video sulle Ricerche Genealogiche a Piacenza
L'ABBAZIA DI CHIARAVALLE ALLA COLOMBA
Sulla via Francigena, in territorio Emiliano, facciamo i nostri due passi...(a cura di Marisa Uberti - Avvertenze/Disclaimer)
Colomba : Ingresso del Complesso.Sopra l'arco,vi sono due
colombe,simbolo dell'Abbazia.La leggenda narra che una colomba abbia disegnato
il perimetro dell'Abbazia con trucioli di legno.Nel 1136, San Bernardo (su invito
del vescovo di Piacenza, Arduino) inviò da Clairvaux una colonia di 12
monaci -con a capo l'abate Giovanni (scelto dal Santo Bernardo) -in una località
chiamata Carreto, per fondarvi l'Abbazia, il cui terreno era stato donato dai
Marchesi Uberto Pallavicino e Corrado Cavalcabò. Attorno al monastero
si sviluppo' un piccolo paese, che oggi è frazione di Alseno e ha nome
Chiaravalle della Colomba. Il papa Innocenzo II avvalla la fondazione con bolla
del 1137.Da quel momento,si moltiplicano le vocazioni e l'abbazia raggiunge
grande fama e ferve in attività.In capo a vari anni, vengono fondate
varie abbazie-figlie di questa abbazia: Fontevivo, in diocesi di Parma (1142-1518).
Quartazzola (1217-1810). Brondolo in diocesi di Chioggia (1229-1409). S.Maria
in Strada,in diocesi di Bologna (1250-14??). Valserena o S.Martino de' Bocci
in diocesi di Parma (1298-1806). S.Maria della Misericordia di Modena (14??-15??)
l'Abbazia viene in parte distrutta, pare dalle
truppe di Federico II e viene ricostruita. Nel
1244 diventa Commenda; nel 1497
entra a far parte della Congregazione italiana di S.Bernardo e nel 1786
aggregata alla Provincia Romana. Nel 1810 le truppe
Napoleoniche la sopprimono come Abbazia e Commenda, mentre la parrocchia
è gestita dal clero diocesano. Solo nel 1937 verrà affidata alla
Congregazione Cistercense di Casamari.Nel 1976 il complesso diventa di proprietà
demaniale. L'intera costruzione è in cotto, secondo l'uso lombardo,anche
se siamo in territorio emiliano.La pianta conserva sostanzialmente ancora oggi
l'impianto primitivo del XII secolo, a pianta bernardina. Solo il lato occidentale
del chiostro ha subito un visto allungamento del refettorio dei conversi che
ha originato un cortile aggiuntivo. La facciata ha un avamportico trecentesco
(il rosone è un po' più tardo); Osserviamo ancora dei motivi già
visti in altri contesti (Chiaravalle Milanese,ad
esempio),negli archetti di sottogronda. Quando San Bernardo
mandò in questo luogo i suoi 12 monaci,
di essi facevano parte un monaco architetto e un esperto nella sistemazione
del suolo e della canalizzazione delle acque;ogni monaco doveva svolgere diverse
mansioni specifiche;per la costruzione del complesso monastico è però
ipotizzabile l'intervento di operai esterni (conversi?) o abitanti del luogo...
Nella sala capitolare è attualmente allestita una mostra veramente interessante,che
illustra le modalità di costruzione dell'abbazia,l'intento simbolico,il
significato di certe geometrie. Grazie a questa mostra,attingiamo per addentrarci
nei meandri 'nascosti' di questo edificio,che rivela numerose,semplici...sorprese!
Partiamo dalla facciata,che si presenta ai nostri occhi di visitatori. "Nella
facciata sono rintracciabili almeno due triangoli equilateri:essi hanno alla
sommità rispettivamente la croce (triangolo grande) e le insegne di S.Bernardo
(triangolo piccolo), quasi a dire che S.Bernardo
e i Cistercensi vogliono seguire il Cristo
uniformandosi a Lui. La croce è il punto di incontro degli spioventi
provenienti dalla copertura delle navate laterali,quasi a simboleggiare che
tutto deve convergere in Cristo. Nella facciata sono rintracciabili molti rettangoli,i
cui lati sono in rapporto costante e precisamente il lato corto ha le dimensioni
del lato di un ipotetico quadrato scelto e il lato lungo ha le dimensioni del
quadrato di base. Tale rettangolo era facilmente realizzabile con la corda a
12 nodi,strumento fondamentale per i costruttori medievali, che permetteva di
risolvere problemi geometrici di delimitazione dello spazio,anche quando non
si conoscevano i numeri con la virgola" . Prima di entrare in chiesa,si
noti il sarcofago dei primi abati dell'Abbazia,per lungo tempo fu ritenuta tomba
di Oberto Pallavicino,con alcuni simboli a noi noti (Sigillo di Salomone,croce
patente...) e colonnine in marmo rosa binate con capitelli scolpiti 'alla lombarda'.
L'interno della chiesa è a tre navate con volte a crociera e a botte,
che sono in totale 33, numero forse casuale ma che in una valutazione teologico
/simbolica- corrisponde agli anni di Cristo. La chiesa è lunga 65 metri,
20 m di altezza e 20 di larghezza. E' dotata di transetto e abside quadrata.
L'asse della navata centrale della Chiesa di Chiaravalle
della Colomba è orientata sul sorgere del sole del 15 agosto,
festa della Madonna Assunta a cui i Monaci cistercensi erano assai devoti. L'edificio
è dunque stato costruito con un criterio 'Simbolico',
allineandosi da oriente a occidente,permettendo alla luce del primo mattino
(sorgere del Sole) di entrare dalle aperture dell'abside che,per i monaci,equivaleva
al Cristo Risorto che sconfigge l'oscurità. Ora vediamo l'interno,di
cui disponiamo di due immagini diverse. Una, quella che vedete, è stata
scattata quando la basilica è 'normale' e le altre quando è il
periodo dell'Infiorata, cioè la festa del Corpus Domini,in cui tutta
la navata centrale della chiesa viene ricoperta di un magnifico tappeto di fiori,un'opera
che necessita di mesi e mesi di preparazione, con vegetali diversi,fiori di
colore diverso, e il risultato che ne esce è strabiliante. Alcune immagini
di come appare la navata centrale 'invasa' da questi capolavori compositivi,che
hanno origine dal 1937 quando tornarono a Chiaravalle
della Colomba i Cistercensi, provenienti da Casamari
da cui si ipotizza presero il modello;infatti non se ne ha menzione prima di
allora in questa chiesa. La stessa tradizione è presente in particolare
nell'Italia centrale ma non solo(a titolo informativo si segnala a Staffarda;a
Camaiore,a Bolsena,a Genzano,a Ferentino,a Casamari,a Spello,a Scarperia,a Velleia,a
Pieve Pelago...). Ma le origini 'storiche' o simboliche del tappeto di fiori
vanno ricercate nel lontano Medioevo, quando la monaca
Cistercense S.Giuliana, Priora del monastero
di Cornillon (1192-1258),aveva promosso
la festa del Corpus Domini nel suo monastero,per esaltare l'Eucaristia. Questa
donna era oggetto di visioni durante le proprie preghiere; in particolar modo
visualizzava una luna sempre mancante di un quarto,che lei interpretò
come la mancanza di una festa che onorasse il pane e il vino consacrati durante
la S.Messa. Così nacque la celebrazione del Corpus Domini,che si estese
nella zona di Liegi e poi a tutta la chiesa,ad opera di papa Urbano
IV (1264). I Cistercensi,esperti agricoltori
ed erboristi,pensarono di rendervi omaggio istituendo la tradizione dell'Infiorata.
Il tappeto di fiori, proprio per il 'materiale' di cui è fatto, si sciupa
entro una decina di giorni e pertanto si può ammirare in quella breve
parentesi di tempo! Nel transetto vi sono delle piccole cappelle,alcune prive
di affreschi(restaurate),con le 'classiche' mensole per le offerte incassate
nel muro come in uso nelle Abbazie cistercensi. Negli stipiti delle cappellette
del transetto si scorgono, incassati nel muro, quattro pregevoli ritratti di
santi: San Benedetto, Santo Stefano, i Santi Pietro e
Paolo, e Santa Maria Maddalena (Magdala)
con il 'classico'calice in mano... Anche a Chiaravalle
Milanese c'è una cappella dedicata a lei,come ricorderete. All'incrocio
tra navata e transetto,si alzi lo sguardo: la volta presenta il 'classico'foro,presente
anche in altre Abbazie dell'Ordine. Pilastro interno con residuo di croce patente,
simbolo riscontrabile anche altrove, in diversa foggia, certamente rifatti di
recente(ci saranno stati anche prima o rifatti di 'sana pianta'?) Guardandoci
attorno,noteremo particolari sempre più interessanti,in cui la luce gioca
un ruolo fondamentale,anche se apparentemente discreto. Nel chiostro,poi,tutto
assumerà sicuramente più fascino e la luce inonderà di
effetti chiaroscurali le nostre perlustrazioni peregrine. Ed ecco un 'particolare'
che ci accompagnerà per tutta la visita e che già abbiamo incontrato
altrove, nell'Abbazia di Chiaravalle Milanese, ad esempio, seppure non trovammo
spiegazioni del loro utilizzo.Ma ...di cosa? Vi starete chiedendo! Di quelle
due 'aperture', chiamate 'occhi' (oculi, come volete) che in questo complesso
edilizio sono presenti in più punti e sempre con funzioni astronomico-simboliche.
E' probabile che essi si troviano anche in altre abbazie cistercensi,ed è
anche probabile con le stesse funzioni che hanno qui.Sempre attraverso la mostra
didascalica allestita nella sala del Capitolo dell'Abbazia, apprendiamo maggiori
informazioni, che vi ridoniamo, sperando le troviate di grande stimolo, come
è stato per noi. Dobbiamo,però,fare prima il nostro ingresso nel
chiostro. L'architettura cistercense rivela una grande perizia anche nella disposizione
dei chiostri,che erano due in realtà:quello più grande che corrisponde
ai locali,ai corridoi e alla parte scoperta (giardino,aiuole),e quello piccolo
che comprende solo la parte scoperta.Il grande ha un'area doppia di quello piccolo.
Per la costruzione del chiostro si rimanda a quanto detto nella parte generale
dell'architettura cistercense. Si riporta però un passo che abbiamo trovato
tra i più interessanti,presenti nelle didascalie che accompagnano la
mostra iconografica allestita in Abbazia. "La disposizione dei locali,
sui quattro lati del Chiostro,tiene conto dei problemi pratici, di indicazioni
teologiche e simboliche, ma forse, anche, delle falde sotterranee (visto che
c'era un pozzo per lavarsi) e, perchè no, anche dei campi magnetici.In
questo modo lo spazio del Chiostro si integra con l'armonia dell'universo e
diventa un generatore di armonia,equilibrio e pace". Il Chiostro
di Chiaravalle della Colomba si è miracolosamente conservato intatto,
dal Duecento a oggi. La sua bellezza è palpabile a ogni passo; le sue
colonnine di marmo rosa di Verona -di cui ben quattro gruppi annodati a ogni
angolo- ne esaltano la struttura. Il nodo è stato interpretato, nelle
Abbazie cistercensi,come simbolo di Unione tra i fratelli.Descritte come "elementi
già diffusi nell' Italia settentrionale già dal XII secolo, divennero
in seguito un elemento caratteristico per i chiostri delle abbazie cistercensi
del nord Italia",rappresentano l'unico esempio fino ad oggi trovato da
noi in cui a tutti e quattro gli angoli sono presenti. Ricordiamo che, per quanto
attiene alle nostre conoscenze, fino ad oggi sono stati censiti quattro luoghi
cistercensi in cui esse attualmente si possono ancora vedere (Chiaravalle di
Milano,d ella Colomba, S.Maria a Follina(TV), S.Bona a Vidor (TV), ma non è
escluso che dove oggi non ne troviamo, un tempo vi fossero.Il censimento delle
colonne annodate è invece di 35 'esemplari(sia italiani che all'estero),
al momento in cui si scrive,cifra destinata a modificarsi man mano procedono
le nostre ricerche in merito, speriamo! Una curiosità sicuramente da
rivelare: abbiamo trovato,nella sagrestia,una colonna annodata MODERNA! Si,proprio
così:è stata scelta una colonna ofitica come modello per sostenere
la riproduzione del complesso abbaziale, accanto all'altare. E' probabilmente
di una lega di bronzo, niente a che vedere con le sue 'antenate', però:
ciò ci fa capire come sia assai arduo replicare anche al giorno d'oggi
(anzi specialmente oggi!) un simile manufatto! Queste sono saldate,con una 'specie'
di annodamento (che ha tutta l'aria di somigliare a un salvagente per la verità,ci
perdoni l'autore!), ed è chiaro che si è voluto emulare la ben
più antica e caratteristica colonna ofitica del chiostro. Il chiostro
di questa Abbazia è ricchissimo di sculture, fatto che contrasta sicuramente
con l'austerità prevista dal Santo fondatore Bernardo. Nel chiostro,
torna la numerologia cara ai cistercensi.Le quattro gallerie misurano ciascuna
49 metri in lunghezza, 5 di larghezza e 7 di altezza;la copertura è caratterizzata
da volte a crociera con chiavi di volta circolari ornate da motivi vegetali
e animali. Le mensole scolpite, che lo rendono uno dei più significativi
dell'arte chiaravallense, sono 14 per corridoio,7 per lato, come i giorni della
settimana. Quattro mensole, corrispondenti agli angoli, sono in comune per due
lati, così il loro numero complessivo dà 52, come le settimane
in un anno solare. Il materiale non è omogeneo,risultando evidente l'impiego
di marmo cipollino di epoca romana. Le descrizioni ufficiali dell'Abbazia menzionano
la presenza di artefici di scuola antelamica (cioè del Maestro Comacino
Benedetto Antelami, molto attivo nella zona emiliana e fautore, tra gli altri,
del Battistero del duomo di Parma). Lasciamo al lettore la libertà di
guardare il perchè a tanta maestria si deve solo rispetto, ammirazione
e gratitudine. Fenomeni Astronomici e correlazioni architettoniche
(Archeoastronomia?). Abbiamo accennato nel testo, a due particolari 'aperture'
circolari, che le didascalie presenti nei pannelli della mostra chiaravallense,
ci hanno indotto a documentare e approfondire. Queste aperture vengono chiamate
'Occhi' perchè sembrano effettivamente due strumenti 'attivi' che scrutano
o che ricevono 'qualcosa'. Quel qualcosa, poteva essere la luce, simbolo caro
ai cistercensi, che non hanno collocato questi occhi sicuramente a casaccio,
ma con criterio ben preciso. Troviamo 'occhi' sia nella sagrestia, dove abbiamo
detto esservi anche quella colonna annodata 'moderna', sia nella chiesa( nella
volta sopra l'abside), che nella Sala del Capitolo. Questa a lato è la
foto del particolare del dipinto della Crocifissione (XIV secolo) presente nella
parete est della sagrestia, che è lo stesso riprodotto nel disegno di
cui si è parlato appena sopra. Sopra il dipinto, si nota l'occhio che
convoglia la luce alla soglia solo nel mattino del 24
giugno, festa di San Giovanni. Particolare
della chiave di volta della cappella ottagonale della sagrestia, con il Cristo
al centro,da cui dipartono gli otto raggi; è dipinta in azzurro trapuntato
di stelle dorate,per replicare il cielo). La sagrestia è il locale più
prezioso tra tutti quelli che si affacciano sul Chiostro
di Chiaravalle della Colomba; è formata da un vano di forma rettangolare
a cui si aggancia una cappella ottagonale che presenta affreschi su tutti i
lati (vi sono dipinti monaci e vescovi legati all'Ordine Cistercense, oltre
a scene bibliche). Gli occhi della Sala del Capitolo. La Sala Capitolare è
il luogo dove i monaci si riunivano per leggere ogni mattina la Regola e discutere
di questioni di interesse generale per la Comunità monastica, compresa
l'accettazione o meno di aspiranti novizi. I conversi potevano assistervi (senza
diritto ad intervenire) attraverso le due grandi trifore che collegano le gallerie
del chiostro con questa sala. In questa sede, ci interessano 'gli occhi' che
sono presenti anche in questo locale, nella parete Est, che risultano asimmetrici
rispetto al disegno complessivo. Qual'è la loro funzione? Si è
visto che la luce,entrando direttamente da queste due aperture,segnala sulle
pareti e sul pavimento l'ora e il periodo dell'anno cosa che, nella vita monastica
primitiva, assumeva fondamentale importanza. La vita di un monaco era (ed è)
scandita dalle 'ore' che sono diverse dalle nostre ore civili e sono scandite
da diversi momenti. "In particolare, lo spigolo tra il pavimento e la parete
verso ovest, indica la linea oraria dell'ora canonica di prima, ossia quando
i monaci entravano nella Sala Capitolare, mentre la linea che unisce la colonna
centrale e il pilastro della parete nord, indica lo scadere dell'ora canonica
di seconda in cui i monaci terminavano la loro permanenza nella sala stessa.
Le macchie di luce provocate dai due 'occhi' disegnano quotidianamente un percorso
diverso che i monaci riconoscevano. Si osserva però che, in giorni significativi
dell'anno astronomico e liturgico,le macchie toccano punti ben definiti della
Sala del Capitolo. Nonostante emerga da diversi studi che i mezzi impiegati
per Costruire un'Abbazia Cistercense pare non fossero
troppo sofisticati o complicati, tuttavia non si sa ancora bene come i Monaci
potessero ottenere gli effetti luminosi desiderati o trasformassero l'edificio
in una grande meridiana. Forse pazienti osservazioni degli Astri, forse attraverso
lo studio di libri che entravano nelle loro Biblioteche più che altrove?
Attualmente (giugno 2006) è allestita - nelle gallerie del Chiostro un'altra
mostra, dedicata a San Bernardo. Pannelli iconografici illustrano la sua vita,
le sue gesta, il suo fervore religioso, i momenti e i personaggi che l'hanno
arricchita,caratterizzata e catapultata nella Storia dell'umanità. Come
non ricordare che San Bernardo appoggiò
e permise l'ascesa di uno degli Ordini Monastico-Cavallereschi
più importanti ed enigmatici che il suo tempo produsse? I Cavalieri
Templari sono ancora oggi al centro di dibattiti, studi, polemiche e
su di loro viene scritto di tutto e di più. Resta comunque l'affascinante
ipotesi che parte delle conoscenze che hanno contribuito a rendere il Medioevo
europeo un periodo tutt'altro che oscuro e buio, ma denso di avvenimenti, cultura,
architettura straordinaria, sia giunto nel continente attraverso contatti d'oltremare,
attraverso le Crociate e l'Oriente. (alcuni pannelli
della mostra, i cui contenuti sono raccolti anche in un catalogo, in vendita
in Abbazia a euro 10). Ci piace fermare nella nostra memoria un'immagine, che
forse avremmo potuto vedere otto o nove secoli fa, quando i monaci cistercensi
-dal Saio Nero e Bianco come il Beauceant
Templare si aggiravano nel chiostro della loro abbazia, nel loro quadrato
simbolico entro cui tutto l'universo e gli elementi di cui è costituito
diventavano una cosa sola. Un Centro sacro. Per questa sezione, oltre alle notizie
apprese in loco, si è trovata molto interessante la Ricerca interdisciplinare
di studenti e docenti dell'Istituto Professionale per l'Agricoltura e l'Ambiente
'S.Solari' di Fidenza "L'Abbazia di Chiaravalle della
Colomba e il suo tappeto di fiori", stampato a cura della Comunità
Cistercense di Chiaravalle della Colomba - Alseno (PC), presso cui è
reperibile.
DIZIONARIO TOPOGRAFICO DEI
COMUNI COMPRESI ENTRO I CONFINI NATURALI D'ITALIA
di Attilio Zuccagni-Orlandini - 1861
PIACENZA (Emilia). Prov. di Piacenza; circond. di Piacenza; mand. di Piacenza. Giace in vasta e feconda pianura questa città. Ha alla sua destra il Po, presso il confluente della Trebbia. E circondala da baluardi con fosse e fortificazioni, ed ha cinque porte. Belle, spaziose, ed un buon numero sono le sue contrade. Lo stradone Farnese è rimarchevole per ampiezza e regolarità e serve di pubblico passeggio. Fra i suoi edilizj sono degni di essere osservati ; il palazzo del comune che presenta l' aspetto di fortezza ; quello detto già collegio de mercanti di nobile e gentile architettura, e che serve alla società filodrammatica; il palazzo della cittadella o Farnese non terminato; i palazzi dei tribunali, e della dogana. Possiede anche parecchi magnifici ed eleganti edifizii di privata proprietà ; elegante è pure il teatro comunitativo. Fra le chiese, il duomo è di gotica architettura esternamente incrostato di pietre, e nell'interno abbellito di pregevoli dipinti; è notevole il tempio di S. Antonio perché in esso si fecero i primi trattati della pace di Costanza nel 1183. Santa Maria di Campagna tien forse il primo posto fra le migliori e belle chiese. Non manca Piacenza d'istituti d'educazione e d' istruzione , di scuole primarie ed elementari , di collegi , ospedali, ospizj , comitati di beneficenze, opere pie, asili infantili. Il territòrio è fertile, e vi si rinvengono miniere di ferro e di rame, cave di gesso, di petrolio, di marmo, di pietra molare e vi abbondano molti curiosi oggetti di storia naturale. Popol. 30,168.
Storia
Il Castello di Montechiaro,
citato come Castrum Raglii negli annali piacentini
col nome dalla vicina frazione Rallio. La parte
piu' antica della costruzione, la torre, come testimoniano particolari architettonici,
sembra risalire al XI secolo quando era caposaldo, verso la pianura, della famiglia
Malaspina. Fu distrutto nel
1234 dai popolari piacentini che lo assaltarono, come quelli di Rivergaro
e Pigazzano, poiche' vi si erano rifugiati i nobili fuggiti dalla citta' di
Piacenza. Rimase sicuro rifugio dei Ghibellini dal 1312 passando dai Malaspina
ai Quattrocchi, da loro agli Anguissola
che resistendo agli assalti dei Fulgosio che volevano impadronirsene. Gli Anguissola,
che ne mantennero il possesso per tre secoli, lo cedettero nel 1652 al letterato
Bernardo Morando, che cerco' di avviare nei primi anni del 1700 lo sfruttamento
dell'Olio di Sasso, affioramento di una vena petrolifera
nei pressi di Rallio. Venne ampliato nel XIV secolo
e rimaneggiato per adattarlo alle esigenze di una residenza signorile nel corso
del 1770. Presenta una struttura particolare con al centro un imponente mastio
a base quadrata circondato da tre cinte murarie, la piu interna alta 15 m. di
forma esagonale, le altre ellittiche. Posto sui primi rilievi collinari dell'appennino
piacentino domina la val Trebbia. Con lo scomparso castello di Rivergaro, che
si trovava poco più a valle, e con i castelli di Statto e di Rivalta,
posti sull'altro lato del fiume, formava un quadrilatero difensivo che controllava
il Caminus Genue la strada che da Piacenza portava
a Genova mettendo in comunicazione la pianura padana con il mare. Passo' poi
ai Casati, agli Schippisi
e dal 1990 e'di proprieta' della famiglia Gattengo
che lo ha restaurato.
Bassorilievo del castello di Montechiaro
detto il benvegnu che recita Segnori vu sie tuti
gi benvegnù e zascaun chi che vera sera benvegnu e ben recevu.
Il castello di Montechiaro è un imponente complesso fortificato che si
trova nel comune di Rivergaro in località Montechiaro, in provincia di
Piacenza. Posto sui primi rilievi collinari dellappennino piacentino domina
la val Trebbia. Con lo scomparso castello di Rivergaro, che si trovava poco
più a valle, e con i castelli di Statto e di Rivalta, posti sullaltro
lato del fiume, formava un quadrilatero difensivo che controllava il caminus
Genue la strada che da Piacenza portava a Genova mettendo in comunicazione la
pianura padana con il mare. La sua struttura si
discosta da quella tradizionale degli altri castelli della provincia di Piacenza
che vede le costruzioni organizzarsi intorno ad un cortile. In questo caso il
cuore del castello è il mastio, un torrione a base quadrata coronato
da merli ghibellini posto al centro del complesso. Il torrione è strettamente
circondato da una cinta muraria che ha forma di esagono irregolare, alta una
quindicina di metri e coronata dal cammino di ronda, a cui si addossano gli
edifici. Vi è una seconda cinta muraria più bassa, di forma ellittica,
che racchiude da vicino la prima, dotata di un unico ingresso sul lato sud-ovest
un tempo dotato di ponte levatoio. La terza cinta, molto più bassa e
ben distanziata dalla seconda, è parzialmente diroccata e si snoda con
perimetro poligonale che segue la forma della cima della collina. Alcuni particolari
costruttivi rimandano a maestranze della Lunigiana, che era il cuore dei domini
dei Malaspina. Nei saloni vi sono tracce di affreschi con gli stemmi della famiglia
Anguissola e un camino con lo stemma dei Morandi. La prigione, in un sotterraneo,
porta ancora sulle pareti graffiti con disegni e un Ave Regina incisi dai prigionieri.
MONTECHIARO - Antico Castello
: Uno dei più interessanti e singolari castelli del piacentino è
quello di Montechiaro, la cui struttura si discosta da quella tradizionale,
per il solitario dongione posto in mezzo al cortile del complesso, la cui impostazione
si adatta alla forma dell'altura su cui sorge. La parte superiore della torre
(nel quale si asserragliavano il feudatario e il presidio nei casi disperati
per tentare di salvarsi dagli assalitori) è coronata da merli ghibellini;
su una facciata una finestrella con voltino monoblocco in pietra fa pensare
che la costruzione (almeno la parte inferiore) debba essere duecentesca.Una
prima muraglia di quindici metri d'altezza, lungo la quale corre il cammino
di ronda, si sviluppa a forma di esagono irregolare, e ad essa si addossano
i caseggiati di abitazione e di servitù sorti in epoca successiva. Nella
primitiva dimora signorile, disposta a nord-ovest, sono visibili sulle pareti
di un ampio salone, tracce di tappezzerie affrescate, il cui motivo predominante
è rappresentato dallo stemma nobiliare degli Anguissola, feudatari di
Montechiaro. << L'antico castello Sulla parete di un'altra stanza adiacente
(forse in antico adibita ad oratorio) è una bella Madonna affrescata
da un ignoto artista di epoca rinascimentale. La prigione è situata in
un vasto sotterraneo sui cui muri è ancora chiaramente visibile, fra
altre frasi e disegni, il brano di un canto liturgico inneggiante alla risurrezione
di Cristo, graffito sull'intonaco da un anonimo prigioniero. All'esterno della
prima cinta, e ad una quota inferiore di qualche metro, corre una seconda muraglia
il cui andamento si presenta a forma quasi ellittica. Nel settore sud-ovest
di essa è ricavato l'unico ingresso del castello, accessibile un tempo
attraverso il ponte levatoio. L'estremo margine del complesso è dato
da una terza cinta muraria, in buona parte diroccata che -alla distanza di una
trentina di metri- si snodava anch'essa con andamento poligonale attorno al
colle. Montechiaro fu, all'epoca della sua costruzione, un caposaldo della potente
famiglia dei Malaspina in direzione della pianura e di Piacenza. Forse furono
essi a costruire il castello verso la metà del 1100. Ricordato anticamente
come castello di Raglio frazione più vicina, dagli "Annali Piacentini"
risulta che nel 1234 venne distrutto dai popolari piacentini che avevano pure
dato l'assalto a Rivergaro e a Pigazzano, nei cui castelli si erano rifugiati
i nobili fuggiti dalla città durante una delle tante lotte civili. L'abate
A. Corna nel volume "Rocche e castelli del piacentino" riferisce un
episodio databile al 1374, anno in cui un altro Fulgosio tentò inutilmente
di occupare il castello difeso da Riccardo Anguissola. Questi peraltro seppe
bene tenere a bada gli assedianti, anzi, durante le frequenti sortite, catturò
pure molti prigionieri che poi fece precipitare dall'alto delle mura. Dopo alterne
vicende, la controversia si appianò e la pace fu sottoscritta e sancita
con un matrimonio tra una Fulgosio e un Anguissola. Nel 1462 Onofrio Anguissola,
alla testa di un numeroso gruppo di rivoltosi per lo più contadini avversi
al governo di Francesco Sforza venne clamorosamente sconfitto dalle truppe ducali
a Grazzano Visconti. Sfuggito per miracolo alla cattura, l'Anguissola si rifugiò
nel castello di Montechiaro dove venne catturato da suo fratello Gian Galeazzo,
per ottenere il favore del duca. Scrive il Corna: "Il disgraziato, dopo
dodici anni di prigionia, fu decapitato nel 1474 nella Rocca di Binasco".
Il castello, uno dei più suggestivi del piacentino, sia per la posizione
a dominio della media Val Trebbia, sia per il bel parco che lo circonda, sia
per l'originale architettura, è pure famoso per il bassorilievo (ora
al Museo Civico) in cui si notano gli abitanti del castello nell'atto di farsi
incontro ai loro ospiti e la dicitura in lingua volgare (una delle prime testimonianze
scritte) che suona: "Signori vu sie tuti gi ben vegnù e zesscun
ghe verà serà ben vegnù e ben recevù".
SI ARRIVA - Da Piacenza lungo la statale 45, qualche chilometro dopo Rivergaro
si incontra (appena oltrepassato Cisiano) la possente mole del castello
CENNI STORICI SU RIVERGARO
L'importanza della posizione strategica di Rivergaro,
a controllo dell'accesso alla val Trebbia via di comunicazione con il mare,
è testimoniata dai nomi dei presidi e stazioni di posta situati lungo
la strada romana, nomi che sono rimasti alle frazioni di Ottavello (octavum
milium) e Niviano (nonum milium). Ma il periodo più movimentato iniziò
nel XI secolo, con le lotte tra guelfi e ghibellini, quando nella città
di Piacenza avevano la meglio i guelfi o popolari i nobili ghibellini trovavano
rifugio nei castelli del contado, Montechiaro,
Ancarano, Pigazzano, Rezzanello. Nel castello di Rivergaro, distrutto da Carlo
VIII di Francia nel 1495, si asserragliarono per un anno i nobili guidati da
Obizzo Malaspina nel 1233. La proprietà della rocca fu contesa
per secoli fino all'avvento dei Visconti che imposero una figura singolare e
nuova: il capitano del Divieto, uomo di fiducia scelto al di fuori delle dispute
locali per riscuotere le gabelle e amministrare l'ordine pubblico, che non riuscì
a placare la guerra civile in atto tra la nobiltà fino a che nel 1548
tutta la zona divenne possesso degli Anguissola-Scotti.
Durante la seconda Guerra Mondiale fu teatro di scontri con le brigate partigiane
guidate dal capitano Alberto Araldi detto Paolo
a cui è dedicata la piazza principale e il suo monumento. Attualmente
il maniero, di proprietà privata, non è visitabile. Nel suo parco,
nel mese di agosto del 1967 sono state girate alcune scene del famoso sceneggiato
televisivo in bianco e nero La freccia nera, sotto la direzione
del regista Anton Giulio Maiano. Tra i protagonisti Arnoldo Foà, Aldo
Reggiani e la giovanissima Loretta Goggi.
TORRE DI RALLIO
Castelli dell'Emilia-Romagna: Censimento e schedatura
La Banca Dati sui Castelli dellEmilia
Romagna realizza il censimento attraverso le fonti edite di tutti i castelli
della Regione giunti fino a noi e/o scomparsi menzionati dalle fonti bibliografiche,
con la loro individuazione, la descrizione del loro stato attuale e la segnalazione
delle fonti che ne hanno tramandato la storia, con una specifica scheda per
ogni castello, ogni fonte ed ogni evento. http://geo.regione.emilia-romagna.it/schede/castelli/index.jsp?id=1481
Rallio Comune: RIVERGARO (PC) - Località: Rallio - Condizione: Buona
(integro) - Precisione dell'ubicazione: Sicura - Informazioni storiche 1251.
1251 - Uberto Pallavicino, podestà di Cremona, sottomette il castello di Rallio occupato da truppe guelfe e lo dà alle fiamme.
7 luglio 1324 - In un atto rogato dal notaio Michele Mussi la Nobile Famiglia Quattrocchi vende la torre di Rallio agli Anguissola.
Quattrocchio è situata sulla antica Via Francigena che collegava Roma alla Francia ed era usata anche per il trasporto del sale (Salsomaggiore, Parma, Piacenza).
Dalla lettera ricevuta dal
Console TCI di Piacenza risulta: "La località Quattrocchio
consta di un gruppo di 5/6 case, di cui solo 2 sono abitate: Dista 40 km da
Piacenza (Via Val Trebbia- Perino) e 6/7 da Perino. Dipende dal Municipio di
Coli". In questa località era situata la Chiesa di S.Maria a Quattrocchi
detta "dei Quattro Archi" perché posta su un ruscello confluente
nel Trebbia. La chiesa nel XIV secolo fu distrutta e le pietre furono riutilizzate.
Nota: Dopo aver letto in vari testi le caratteristiche topografiche
degli insediamenti templari, ho trovato molto interessante il libro "Guida
all'Italia dei Templari" di B. Capone, L. Imperio, E. Valentini dove viene
presentato un approfondito esame delle peculiarità territoriali richieste
dai Templari per i loro insediamenti. La località Quattrocchio rispecchia
(poche case, la chiesa, il fiume, una via di pellegrinaggio) questa tipologia.
STORIA DI COLI
In passato luogo di contemplazione dove la tradizione vuole che anche S. Colombano venisse a pregare, oggi Coli è un centro dedito all’agricoltura all’allevamento e al turismo. Alle origini Coli fa parte del pagus Bagienno di Bobbio sotto la dominazione romana ed è nel municipio di Velleia. In seguito passa ai Longobardi e nel 614 a San Colombano ed al monastero di Bobbio. Con la fondazione del monastero Coli diventa fiorente cella monastica. Lo stesso San Colombano, nel 615, si trasferisce nell`eremo di S. Michele, nella Curiasca di Coli, detta la Spelonca. Vede succedersi le dominazioni delle famiglie Grassi, Peveri e nel 1441 passa alla potente famiglia Nicelli, tutti feudatari di Bobbio. In seguito diventa feudo dei Dal Verme e segue le sorti del comune di Bobbio fino al 1923, anno che determina l’elevazione a Comune della Val Trebbia, sotto la Provincia di Piacenza. (Roberto Rossi)
DIZIONARIO TOPOGRAFICO DEI
COMUNI COMPRESI ENTRO I CONFINI NATURALI D'ITALIA
di Attilio Zuccagni-Orlandini - 1861
COLI - Emilia. Prov. di Piacenza: circord. di Piacenza : mand. di Bettola. E' Coli un comune montagnoso ed alpestre, limitrofo a Bobbio da cui è ben poco distante : prossimo per conseguenza alla destra riva della Trebbia, e per mezzo dell' Auto o Aveto dagli antichi stati Sardi diviso. Questo capoluogo consiste in un gruppetto di poche case posto sul declivio del Monte S. Agostino. Delle cui erte e nude rupi suole annidarsi l'aquila imperiale. È questo forse il Colianum dell'Ambitrebìo ricordato nella Tavola Velejate. Lo signoreggiarono i Nicelli che vi avevano fatto edificare una rocca: nel 1680 continuava ad esser presidiata, ma ora non se ne vedono che poche ruine in luogo detto il castello. Popol. 4108.
FOTOCOPIA DEL DOCUMENTO DEL BATTESIMO DI GIACOMO, FIGLIO DI SIMONE QUATTROCCHIO - MARZO 1554 - GIACENTE PRESSO LA BIBLIOTECA COMUNALE ARIOSTEA DI FERRARA
DIZIONARIO TOPOGRAFICO DEI
COMUNI COMPRESI ENTRO I CONFINI NATURALI D'ITALIA
di Attilio Zuccagni-Orlandini - 1861
FERRARA (Emilia). Prov. di Ferrara; circond. di Ferrara; mand. di Ferrara. Città grande è Ferrara, e può dirsi anche bella, ma il suo spopolamento la rende trista e deserta. La ricingono tuttora solidissime mura e bastioni. In un angolo volto a ponente sorge la fortezza fatta costruire da Paolo V. L'antico castello o palazzo dei Duchi, è grandiosamente inalzato a foggia di rocca munita di torri angolari, e circonvallato di fosse con ponte levatojo. Altri considerevoli edilizi sacri al culto ammiransi in Ferrara, insigniti di capolavori d'arte, di sontuose e magnifiche tombe. Nell 'Ospedale maggiore è attirata la curiosità dei viaggiatori alla vista del vituperevole monumento d'ingiuria fatto dagli Estensi al Tasso. Ferrara non può vantarsi di remota origine. Ad una borgata chiamata Ferrariola, sul linire del secolo XI il Duca Èrcole I diè un ingrandimento, distinto col nome di Erezione Erculea. Popol. 67,591.
CASETTO
QUATTROCCHI - RAVENNA
CA’ VECCHIA( Pineta di S.Vitale )PALAZZONE di S.Alberto-CASETTO
QUATTROCCHI (via delle Valli)
ARCHIVIO DI STATO - BENI CULTURALI
Nel 1985, in risposta ad una richiesta del Sig. Carlo Quattrocchio di Milano circa informazioni sui documenti conservati relativi all'Abbazia di Chiaravalle della Colomba, il Direttore Prof. Dir. Angelo Spaggiari gentilmente segnalò che con la soppressione napoleonica l'Archivio e la Biblioteca del Monastero vennero dispersi e che presso l'Archivio di Stato vi era una lettera di Felice Quattrocchi da Mantova in data 25 Agosto 1656 ed una lettera del tenente Ottavio Quattrocchi da Castelfranco Emilia (allora nello Stato Pontificio) in data 25 aprile 1693 al Cardinale Rinaldo d'Este. Costui era un militare pontificio e faceva parte del Presidio di Forte Urbano.
IL MEDIOEVO - a cura
di Umberto Eco
La povertà dei
santi, la povertà dei nuovi ordini, la povertà degli eretici.
Sulla soglia del Duecento,
Innocenzo III (1160-1216. papa dal 1118). ritornando su una posizione
espressa dal suo predecessore, approva, dopo averlo dotato di costituzioni giuridiche,il
movimento di quei laici che pur restando nella loro casa con la loro famiglia,
avevano scelto una forma di vita religiosa e "si astenevano dal mentire
e dall'intentare cause e si impegnavano a lottare per la fede cattolica".
Si tratta degli Umiliati, il primo gruppo laicale
che abbia associato una vita religiosa intensa alla pratica del lavoro artigianale;
il documento, datato 1201, è molto importante e sancisce, per così
dire, ufficialmente, l'esistenza dei tre ordini: i Chierici,
coloro che si conformano a un'esistenza comunitaria d'impronta monastica riuniti
in un convento, e un terzo ordine di laici i quali vivono "nel mondo''
e non obbediscono ad una regola; bensì ad un semplice propositum (A.
Vauchez, I laici nel Medioevo).
Un paio d'anni prima lo stesso papa aveva innalzato alla gloria degli altari
per la prima volta un mercante: santo Omobono di Cremona
(? -1197), laico, sposato, devoto e caritatevole mercante. Altri uomini e molte
altre donne, anch'essi scelti per lo più tra i nuovi ceti sociali delle
realtà comunali urbane, anch'essi sovente né vescovi né
monaci, ma o castamente coniugati, o terziari o appartenenti a quei nuovi ordini
di Francescani e Domenicani
che più fortemente esprimono la voglia di cambiamento della Chiesa due-trecentesca,
saranno in seguito santificati. Altri movimenti. come quello dei Penitenti,
propriamente detto Ordo Peonitentiae, svilupperanno
modelli simili. Un testo approvato dal papa nel 1221, noto come "memoriale
propositi", ne delinea obblighi e statuto. Gli Adepti,
che rifiutano il giuramento e non possono portare armi, devono confessarsi e
comunicarsi tre volte l'anno e vestire un abito non tinto e povero. Essi si
attengono a digiuni più rigorosi dei semplici fedeli e recitano le sette
ore canoniche come i monaci. A sottolineare la contiguità esistente tra
questi movimenti di rinnovamento e quelli dei frati minori, basterà dire
che lo stesso san Francesco (1181-1182-1226) aveva
all'inizio creato una fraternità di penitenti che solo dopo l'approvazione
di Innocenzo III darà origine, all'Ordine
dei Frati Minori e a quello delle Pauperes dominae
di S. Chiara (1194c.a.-1251).Nessun dibattito più
di quello sulla povertà può farci comprendere il tessuto comune
che alimenta i nuovi frati e i nuovi santi, gli eretici e i loro avversari.
Dibattito nato nelle nuove realtà urbane segnate dalle trasformazioni
sociali che scardinano a poco a poco quel convincimento che ogni povertà
come ogni ricchezza sia voluta da Dio e che ogni gerarchia sociale sia un sacro
ordinamento. Nell' ambiguita di una morale arcaica del lavoro che stenta a divenire
la nuova etica del guadagno attraverso le nuove professioni, la Sacra Scrittura.
interrogata sempre più spesso con occhi nuov'i per nuove domande, può
prestarsi ad ogni interpretazione: lo stesso passo del Vangelo di Matteo (19-21)
"Va, vendi ciò che possiedi e dona il ricavato ai Poveri"
si richiama per la conversione di Omobono, di San
Francesco di Pietro Valdo (?-1207 c.a.) il mercante fondatore del movimento
eretico dei Valdesi contro
cui tanto sangue sarà versato. Francesco
d'Assisi si spoglia di ogni ricchezza, per dedicare la propra vita alla
penitenza, al digiuno, alla preghiera; nel 1210 Innocenzo
III concede la sua approvazione verbale alla regola del nuovo ordine.
Dopo un pellegrinaggio in Terra Santa al suo ritorno trova aspri conflitti tra
i frati che avvelenano i suoi ultimi anni. Nel frattempo egli elabora una nuova
regola approvata da Onorio III (?-1226, papa dal
1216) nel 1223 che mira a disciplinare e organizzare su basi di maggiore efficienza
un movimento che, inizialmente pensato per pochi adepti, ha avuto un inatteso
successo e conta centinaia di soggetti, non sempre controllabili. L'ordine in
effetti attraversa contrasti, scissioni e fratture, la più importante
delle quali si riferisce proprio al modo di intendere e di vivere la povertà,
e finisce col sancire la divisione tra i più pragmatici e accomodanti
conventuali graditi a Roma e i più intransigenti spirituali rigorosi
osservanti della regola che vieta la proprietà di qualunque bene come
Cristo e gli apostoli, ma scivolano verso posizioni radicali al confine con
l'eresia. Molti fedeli guardano con sospetto la Chiesa ricca, potente e mondana
così diversa da quella povera, umile e frugale che hanno in mente. Perfino
la costruzione e la decorazione degli edifici di culto danno luogo a polemiche:
memorabile quella che si svolge fra Bernardo di Chiaravalle
(1090-1153) e i monaci cluniacensi, come
testimonia l'Apologia ad Guillelmum e che, prolungandosi
nel XIII secolo, da luogo ad un rinnovamento dello stile, nel segno della semplicità
in tutte le chiese cistercensi. Il riferimento scritturale alla povertà
di Cristo e degli apostoli - origine di tutta la diatriba sulla povertà
- viene formalmente condannato come ereticale da Papa
Giovanni XXII nel 1318, suscitando la violenta reazione dell'allora generale
dei Francescani, Michele da Cesena (1270-1342),
il quale osa contestare la condanna, ma, destitutito, è costretto a fuggire
a Monaco e a mettersi sotto la protezione di Ludovico
il Bavaro (1281 c.a.-1347) che in quel periodo accoglie anche Marsilio
da Padova (1276 c.a.-1343 c.a.) il deciso assertore dell'origine laica
e terrena del potere espressa nella sua opera più famosa "il defensor
pacis". Nel 1292 i già ricordati fratelli della vita povera o Fraticelli
- un troncone degli Spirituali - capeggiati da
Angelo Clareno (1245 c.a.-1337) ottengono il riconoscimento
da Celestino V (1209-1210-1296 - papa da maggio
a dicembre 1294) ma essi per il loro scarso rispetto della gerarchia trovano
un forte oppositore nel loro generale Bonaventura da Bagnoregio
(1221 c.a. 1274) e finiscono con l'aderire alle frange più radicali delle
sette pauperistiche fino a confondersi con i tanti contestatori extra ecclesiam.
Tra costoro ricordiamo Gherardo Segarelli (?-1300)
il quale dopo aver tentato invano di farsi accogliere dai Francescani
di Parma, vende i suoi beni e, distribuito il ricavato ai poveri, ripropone
il modello di vita della chiesa primitiva dando luogo intorno al 1260, al movimento
dei cosiddetti Apostolici che condividono molte delle istanze che abbiamo ritrovato
in altri movimenti. Gherardo Segarelli viene arso
sul rogo nel 1300, ma la sua azione è portata avanti da un suo discepolo
fra' Dolcino di Novara (1250 c.a.-1307). Costui
si fa promotore di un movimento di palingenesi sociale e religiosa, richiamandosi,
come il suo maestro, alle apocalittiche profezie di Gioacchino
da Fiore (1130 c.a.- 1202) e al prossimo avvento dello Spirito Santo
da lui auspicato, durante il quale sarebbe stato instaurato il regno del Vangelo
Eterno, predicato dal nuovo ordine monastico dei giusti, nel quale parecchi
dissidenti credono di identificarsi. I Dolciniani,
organizzati in bande armate che scorrazzano per l'Italia settentrionale, si
rendono per anni responsabili di violenze contro le proprietà dei ricchi,
ma anche di indiscriminati saccheggi e delitti. Sono almeno 4.000 quando si
insediano sul Monte di Parete Calva nel novarese.
Qui vengono decimati dal lungo assedio delle truppe mercenarie al servizio dei
Vescovi di Vercelli e di Novara; i pochi che riescono
a scampare si rifugiano nel biellese sul Monte Rubello,
ma si è ormai all'epilogo della vicenda (1307). Dopo una disperata resistenza,
vengono tutti catturati e fra' Dolcino è
posto a morte fra inenarrabili supplizi.
STORIA DELLA CITTA' DI PARMA - IRENEO AFFO - TOMO TERZO
NOTIZIE INTORNO ALL'ORDINE DI GHERARDO SEGARELLO - PSEUDO APOSTOLO
AL TEMPO DELL'ABATE GUGLIELMO QUATTROCCHIO (1252 circa)
Nota - Ma e' oramai tempo di ritornare a far parola dell' Ordine di Gherardo Segarello , che , siccome abbiam detto , rimaneva per l' indicato Concilio soppresso. Quest'assemblea di fanatici si era notabilmente moltiplicata . L' institutore , benche' pregato , non aveva pero' mai voluto prenderne la direzione. Laonde questionando fra loro gli Apostoli se dovessero eleggersi un Superiore, o pur no, rivolti si erano gia' per consiglio a Maestro Alberto d' Ungheria Parmigiano, uomo assai famoso, ed uno de' sette Notai della Romana Curia , che li rimise all' Abate di Fontevìvo . Parve all' Abate dover eglino rimaner come stavano senza capo veruno , e senza edificarsi case conventuali , vaganti pel Mondo separatamente nel solito loro abito altre volte descritto, con lunghi capelli, e barba prolissa. Cosi giudico' egli, sperando che in tal guisa dispersi, e l' un dall' altro indipendenti, sarebbesi da se stesso distrutto un Istituto,che sotto il pretesto di rinnovar la vita apostolica poteva seminar un giorno zizzania . Dispostisi a seguir tal parere avanti di separarsi congregaronsi in Parma tutti gli Apostoli presso il fondatore, e saltellandogli attorno pieni di ridicolo entusiasmo gridavano senz' altro soggiugnere Padre, Padre, Padre. Egli cosi' onorato veggendosi , disse di volerli rimunerare ; e comando' loro di spogliarsi di tutti gli abiti , che legati in fardello fece in mezzo della camera mettere a monte. Rimasti gli Apostoli del tutto ignudi , e con tal rito a suo dire spropriati , predico' loro il seguir Cristo ignudo. Cio' fatto diede ingresso ad una vii femmina, da cui distribuite furono a ciascuno senza la minima scelta le confuse vesti , e per tal modo licenziati se ne andarono chi verso San Giacopo di Galizia , chi ad altri Santuarj , come loro parve meglio . Le massime loro istillate dall' empio Gherardo erano tutte dirette al disprezzo della Romana Chiesa , fuori di cui egli credeva chiunque non abbracciasse la finta sua poverta' , e la sua supposta vita apostolica . Il Papa , i Prelati , e tutti gli altri Religiosi erano per costui un branco di presciti; l' autorità loro era decaduta , e trasferita nella nuova sua setta, vantandosi egli per quell'eletto virgulto , in cui avea cominciato a rifiorire la Chiesa di Cristo . Permetteva poi a'seguaci suoi le piu' detestabili disonesta' ; e sotto pretesto di vincere a forza le tentazioni della carne concedeva agli uomini ed alle donne il giacere insieme , e destarsi vicendevolmente alla piu' ardente concupiscenza, insegnando , che se cio' non, ostante omesso avesserodi scendere agli atti dell' ultima e piu' sfrenata libidine ,poteano vantarsi di aver fatto maggior miracolo, che non sarebbe il dar ad un morto la vita Per questo dice Fra Salimbene, informato da costoro medesimi , che non solo abusavano delle femmine, ma de' maschj eziandio, e narra che seco avevano tra le altre Apostolesse Ripia sorella di Fra Guido Putagio o Putaglia da Parma di tal Ordine seguace . Cosi' andarono dispersi qualche tempo i pseudo-Apostoli, fin a tanto che montato in superbia il Putaglia , se n' era fatto egli spontaneamente capo , ed universal reggitore , usando tal fasto , e tenendo Corte si' splendida , che Vescovi e Cardinali non avrebbono fatto di piu'. Tanta sua boria spiacendo all'Ordine, fu egli deposto, ed eletto resto' in sua vece Fra Matteo dalla Marca di Ancona, per cui nacque scisma e divisione, non volendo il Putaglia discendere dal suo grado. Stava egli in Faenza con alcuni pochi suoi partigiani a custodia di una picciola Chiesa nel Giardino degli Alberghetti e degli Accarisi, e per farsi credere il legittimo Superiore, e trionfare dell' avversa parte cerco' di aver seco il Segarello, e l'ottenne, persuaso che l'ombra del fondatore dovesse renderlo rispettato. Ma gli Apostoli di Fra Matteo congiurando contro il Putaglia , andarono per levargli dai fianco il Segarello , e la faccenda termino' in guisa , che Apostoli con Apostoli fieramente si bastonarono .
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Lotte di Potere nel Primo Cristianesimo e la Nascita delle Eresie
L'Arianesimo e la natura umana del Cristo
Manichei, Donatisti e Pelagiani
Un eretico medievale: Fra Dolcino
Marcel Raymond, della Trappa
di Nostra Signora del Getsèmani, Kentucky (Stati Uniti).
Quindici donne di Citeaux Santa Franca di Pittòlo, Santa Lutgarda, Santa
Edvige, Ida di Nivelles, Ida di Lovanio, Ida di Leau ed altre. Queste Donne
camminarono con Dio.
SANTA FRANCA, BADESSA, DI PITTOLO.
La donna silenziosa che parlò con Dio incessantemente. Orationi frequenter
incùmbere - pregare frequentemente: tale è il 75° Istrumento
dell'arte spirituale di San Benedetto, come egli si esprime. Tale fu la vita
di Santa Franca.
Ecco una donna che parlava incessantemente, si dice forse a torto di molte donne;
a differenza di tante altre, franca parlava con Dio.
Ecco una donna che per il suo spirito virile del nessun compromesso , alimentò
il fuoco di una faida familiare, finché esso si trasformò in una
guerra civile. Benché rinchiusa in un chiostro, essa mise in tale furore
Guelfi e Ghibellini
e mosse a così amare lotte i Principi della Chiesa e dello Stato, che
Sua Santità il Papa Innocenzo III dovette
intervenire e porre l'intera città sotto interdetto. Essa abbandonò
la società italiana a sette anni, tuttavia per il resto della sua vita,
durata quarantaquattro anni, sconvolse profondamente quella società;
poi quarantaquattro anni dopo la sua morte, la scosse ancor più profondamente
e ne attirò l'attenzione ancor più di quando era viva. Franca,
figlia del Conte di Vidalta, entrò in convento a sette anni, fu professa
a quattordici, badessa a ventitré, difese la stretta osservanza prima
dei trentatré, fondò un nuovo convento prima dei quarantatré
e morì a quarantaquattro anni. La sua vita ha per noi due grandi insegnamenti:
1) La santità è costruita sul principio
del nessun compromesso . 2) Per vivere quel principio, bisogna pregare frequentemente.
Nel 1175 (secondo alcuni nel 1173) il Conte Vidalta
si rallegrava per la nascita della sua prima e, per quanto si sa, unica figlia
Franca. Vidalta aveva i suoi nemici, molti dei
quali proprio nella gaia città di Piacenza. Egli infatti era capo
dei Guelfi, il partito che sosteneva la supremazia del Papa sull'Imperatore,
mentre capo riconosciuto dei numerosi Ghibellini che erano a Piacenza, era il
Conte Della Porta. Ma il giorno in cui nacque Franca, pare che il suo nobile
padre abbia abbracciato il Della Porta insistendo perché bevesse alla
salute della neonata e alla felicità dei genitori. Poiché la vera
gioia è comunicativa, non vi è dubbio che il Ghibellino cedette
e bevve. Se ciò accadde, certamente Vidalta avrà intrattenuto
il rivale sul sogno che sua moglie si dice avesse avuto prima della nascita
della bimba, come si racconta spesso nelle vite dei santi del Medio Evo; un
sogno in cui essa vide un cagnolino correre avanti e indietro con in bocca una
torcia accesa. Allora egli avrà aggiunto con orgoglio e con aria di grande
segretezza che un santo eremita aveva interpretato il sogno come segno che la
neonata era destinata a fare grandi cose per Dio e la Chiesa. Quel riferimento
alla Chiesa dovette probabilmente porre termine alla momentanea amicizia, non
solo per la loro volubilità, ma perché l'ostilità tra Guelfi
e Ghibellini era veramente vulcanica. Non si fa menzione che la neonata portasse
qualche nuova scintilla in quell'insieme vulcanico; ma è certo che essa
commosse quell'ambiente così volubile. Buon giorno risuonava da mattina
a sera. Appena sette anni dopo, il Conte e la Contessa erano alla porta del
convento di San Siro. Le loro labbra sorridevano ma avevano il cuore grosso.
Proprio allora avevano affidato il raggio di sole della loro vita alle cure
delle monache Benedettine, ed ora ritornavano ad affrontare il vuoto della loro
casa. Dopo questo atto, la nobile coppia fu veramente sola per mesi; tuttavia
si consolò al pensiero che la bimba era al sicuro e sotto la cura di
coloro che l'avrebbero cresciuta con un'anima retta e con elevata virtù.
Cercarono di convincersi che Franca era in convento allo scopo di essere istruita.
Avevano visto la loro bimba sbocciare nella fanciullezza, e mentre ne andavano
orgogliosi per la precocità, erano allo stesso tempo meravigliati della
sua pietà e sentivano nel modo più assoluto che, dato l'ambiente
del convento, la sua inclinazione naturale sarebbe stata assecondata. L'avevano
condotta a San Siro come educanda per esservi istruita, ma nel fondo del loro
cuore avevano la certezza che vi sarebbe rimasta come religiosa per santificarsi.
Non si sbagliarono. Sei anni dopo essere stata condotta alla porta del convento,
essa era prostrata sul pavimento della sala del Capitolo; e alla domanda della
badessa Brizia: Che cosa cerchi? - Franca mormorò, prona nella polvere,
la formula prescritta: - La misericordia di Dio e dell'Ordine; - essa chiedeva
l'ammissione nella comunità delle Benedettine come novizia. Un anno dopo
pronunciava i voti formali, finali e perpetui, e da quel giorno fino all'aprile
di trent'anni dopo, visse tutta una esistenza senza nessun compromesso con la
Regola, secondo la quale aveva fatto voto di vivere. I suoi biografi, naturalmente,
la pongono sugli altari ancora prima che chiedesse di diventare novizia. La
descrivono come una bimba di otto anni che coltivava con raro successo quelle
virtù monastiche fondamentali e tuttavia supreme che sono l'umiltà
e l'obbedienza; la descrivono realmente bramosa di rigidi digiuni e veramente
felice, per le lunghe veglie notturne. Tale stato di cose, non è assolutamente
impossibile, tutti l'ammetteranno; ma bisognerà dire che non è
eccessivamente probabile. Vi è tuttora una leggenda che fa apparire la
fanciulla come costantemente in preghiera. I due grandi canali della grazia
sono la preghiera e i Sacramenti; ma ai tempi di Franca i soli Sacramenti a
disposizione, per una bambina di otto o dieci anni, erano il Battesimo, la Cresima
e la Penitenza. Tuttavia Franca doveva aver ricevuto grazie in abbondanza; alla
sua vestizione una zia vide infatti un angelo e non la badessa, vestire la fanciulla,
e al posto del consueto velo che ricopriva solo il capo e le spalle, vide l'Angelo
posare su Franca un velo che l'avvolse sino ai piedi - segno che la sua dedizione
a Dio era completa e la Sua risposta altrettanto completa. Se essa non fosse
stata assidua alla preghiera prima della professione, doveva esserlo dopo, specie
per mettere in pratica il proponimento di non permettersi nessun compromesso.
Infatti l'atmosfera attacca persino l'acciaio più duro; e l'atmosfera
del monastero di San Siro, benché non rilassata, poteva appena essere
definita regolare. Franca aveva ragione di pregare ogni giorno: - Fammi coraggiosa,
mio Dio, fammi forte. Al fine di percorrere con fede la linea diritta della
Regola, quando tutte le altre sembrano abbreviarla ed avere ugualmente successo,
si richiede davvero la forza dello Spirito Santo. Shakespeare ha detto: La coscienza
ci fa tutti codardi . Ma si può anche dire che la coscienza può
farci tutti eroi: così accadde a Franca. L'unica approvazione che cercò
e che ricevette in quei primi anni, fu quella della sua coscienza. La maggior
parte delle consorelle sorrideva della sua stretta osservanza e considerava
Franca vittima del fervore della sua professione. Questa fedeltà era
invece il risultato del dono della fortezza dello Spirito Santo, che le fu concesso
in abbondanza per la sua costante richiesta: - Buon Dio, rendimi forte abbastanza
per essere sincera, e sincera abbastanza per essere forte. Fammi fedele. Curva
la tua schiena. Prima che Franca compisse 17 anni, la badessa Brizia la considerò
come la persona più adatta ad occuparsi dell'infermeria. Può sembrare
che la sua età fosse un ostacolo per un tale incarico; ma quando si considera
che San Benedetto ha specificato che tale incarico deve essere affidato soltanto
a una persona timorata di Dio, diligente e attenta , e che la badessa
Brizia era nota per la sua saggezza, si può concludere che l'anima di
Franca era cresciuta più in fretta del corpo. La spiegazione di tale
crescita straordinaria sta nell'uso di quel cinquantasettesimo Istrumento dell'arte,
spirituale consigliato da San Benedetto nella sua Regola: orationi frequènter
incùmbere.
Non sarà del tutto inutile, trarre dal verbo incùmbere un'immagine
che raffigura un uomo con la schiena curva nello sforzo di spingere un remo.
Dal momento che San Benedetto aggiunse a quel verbo frequenter, comprendiamo
perché si dice che egli intende dire con ciò di essere assidui
alla preghiera. Franca lo fu. I malati fornirono alla giovane infermiera un
duplice incentivo all'abitudine della preghiera. Innanzi tutto San Benedetto
sottolinea che debbono essere serviti come Cristo stesso ; e quando una persona
si trova a faccia a faccia con Cristo stesso, sia anche solo in un Suo membro,
è inevitabile la preghiera di adorazione silenziosa e amorosa. Siccome
poi erano soltanto le Sue membra, l'umano spesso oscurava il divino, e Franca
era obbligata a pregare ardentemente per ottenere la pazienza, la gentilezza,
l'uniformità di carattere. Essa pregò, e le sue preghiere furono
esaudite a tal punto, che fu la sua dolcezza e non la sua abilità a renderla
preziosa ad ogni sofferente. Dobbiamo riconoscere anche che una persona ammalata
è in certo modo esigente; una monaca ammalata, se anziana, lo è
in modo particolare. Franca aveva da servire molte monache anziane ammalate.
La stessa badessa Brizia, fu ricoverata in infermeria nel 1194 e 1195. Nel 1196
era nella tomba. In quell'occasione le monache di San Siro fecero una cosa straordinaria:
elessero badessa la giovane infermiera, che allora aveva al massimo 23 anni.
Non fu soltanto un riconoscimento alla virtù e al reale valore di Franca,
ma la testimonianza del profondò desiderio che le monache di San Siro
avevano per l'alta santità; Franca infatti si era sempre distinta per
la sua stretta osservanza. Indubbiamente la comunità di San Siro nella
sua interpretazione della Regola di San Benedetto aveva sempre seguito i costumi
del tempo. Con questo non la si poteva proprio dire rilassata o tiepida o mediocre.
Soltanto quando la loro osservanza era confrontata con la Regola, e contrastava
con lo sforzo che Franca faceva per vivere secondo il testo, si poteva notare
la discrepanza. Eleggendo Franca, le monache dissero in effetti che desideravano
essere di stretta osservanza, rette e sante. Nessuno forse più del Vescovo
di Piacenza Ardicio, fu soddisfatto dell'elezione. Egli conosceva Franca, conosceva
il suo spirito di nessun compromesso e la sua vita di continua preghiera; le
diede la Benedizione Abbaziale e la installò con gioia, poiché
sentiva che non avrebbe fatto soltanto del bene al convento delle monache, ma
all'intera diocesi di Piacenza. Poco dopo la cerimonia egli morì, confortato
al pensiero che aveva nella sua diocesi una centrale di preghiera diretta da
un'anima santa. Il suo successore non fu altro che Grimerio Della Porta. I burloni
della città fecero osservazioni sarcastiche sui Guelfi che facevano capo
a San Siro, e sui Ghibellini che facevano capo alla diocesi. E la faccenda sarebbe
terminata, ognuno divertendosi allo spirito dei burloni e gustando i loro intelligenti
doppi sensi sulla politica e su coloro che erano al potere, se la rivalità
delle due fazioni non si fosse concentrata nel monastero stesso, quando la sorella
di Grimerio, monaca di quella comunità, cominciò a sentire antipatia
per la badessa sempre in orazione e strettamente osservante. Siccome di guai
ve ne furono persino in Paradiso, nessuno potrebbe stupirsi di trovare le figlie
di Eva, anche sotto l'abito religioso, capaci di turbare le acque più
calme. Nei primi anni dopo la sua elezione, Franca ebbe ragione di chiedersi
se non si trovava nell'Eden; infatti la comunità rispondeva ad ogni proposta
con qualcosa che rasentava il vero ardore. Il tono di San Siro si elevò,
e il monastero divenne ben presto l'invidia e l'ammirazione di tutto il mondo
religioso del Nord Italia. Ma ben prestò Sàtana indusse alcune
monache a guardare il frutto proibito . Gli esegeti hanno studiato per dirci
che cosa c'era su quell' albero della scienza del bene e del male , quell'albero
che era nel centro del Paradiso . Essi non sono stati né troppo chiari
né troppo convincenti. Ma sulla natura del frutto che portò guai
a San Siro non vi può essere dubbio; tutti gli agiografi sono d'accordo
nel dire che fu l'uva: non il frutto in se stesso, ma il suo succo. A San Siro,
al tempo della badessa Brizia, la cuoca soleva prendere certa verdura dall'acqua
in cui l'aveva fatta bollire e poi macerarla nel vino prima di servirla. Una
piccolezza in sé. Ma che cosa era una mela, se fu una mela che Eva addentò,
considerata in se stessa? Si guardi tuttavia alla quantità di dolori
che produsse lungo i secoli. Così accadde con il vino. A Piacenza nei
primi anni di quel secolo non vi erano né giornali né radio, né
televisione. La gente aveva perciò tempo di riflettere, di discutere
le proprie idee, e anche di fare pettegolezzi oziosi e no. Questo spiega come
mai nel 1208 tutta la città parlava della cucina che si faceva a San
Siro e scommetteva se avrebbero vinto i Guelfi o i Ghibellini. Franca disapprovò
la cosa come un indulgere non necessario, come qualcosa che sapeva di mondo
e persino di sensualità. La sorella del Vescovo, che probabilmente non
si era curata del vino nella verdura, si servì dell'incidente per criticare
la badessa e mostrare un'ambizione tenuta segreta per anni, ma che adesso rivelava
apertamente. Essa voleva diventare badessa al posto di Franca. Dal punto di
vista del nostro ventesimo secolo, il fatto di imbevere di vino certi vegetali,
appare come una cosa senza importanza; la storia ci dice invece che la disputa
non rimase entro le mura del convento. Parole intercorsero fra i Della Porta
e i Vidalta; quelle famiglie che erano sempre state rivali socialmente, politicamente,
economicamente, lo divennero anche ecclesiasticamente. L'ostilità si
estese, dai parenti stretti dei Conti a tutti gli altri. Presto la città
si divise in due parti, e cominciò una vera guerra civile. Certamente
la verdura e il vino furono presto dimenticati. Non molto dopo che le lame furono
tolte dal fodero, perfino le famiglie come famiglie, vennero ignorate da tutti,
poiché la contesa di lunga data fra Guelfi e Ghibellini, quella posizione
senza via d'uscita tra Chiesa e Stato, teneva viva l'attenzione di tutti e infiammava
le passioni. Grimerio, prima di essere eletto Vescovo di Piacenza, era stato
monaco Cistercense, nel monastero di Chiaravalle della Colomba. Ma nel fervore
della contesa ricordò solo di essere un Della Porta e un Ghibellino,
ed ebbe cura di farlo sapere a tutte le parti, sollevando una tale opposizione
da essere obbligato lui e il suo clero a fuggire a Cremona, se volevano salvarsi
la vita. Fu allora che Papa Innocenzo III intervenne e pose l'intera città
sotto interdetto. Chi può ora mettere in dubbio che fu una mucca a provocare
il grande incendio di Chicago, o che un sassolino può dar l'avvio a una
valanga? Piuttosto che trovarsi in una situazione come questa, Franca avrebbe
dato volentieri la vita. Stando così le cose, si mostrò pronta
a rinunciare alla sua carica. Non avrebbe sacrificato certo i suoi princìpi,
né avrebbe accettato alcun compromesso; poteva lasciare il suo ufficio
e vivere con Dio in un luogo dove il vino non avrebbe messo a rumore l'intero
paese. Lo disse a Dio nella preghiera. La preghiera era la sua vita; e per mezzo
di essa si era offerta tante volte in sacrificio a Dio. Ora in preghiera ricevette
dalla Madre di Dio l'assicurazione che presto le sarebbe stato concesso aiuto
e sollievo. Franca conservò la carica di badessa, pregando incessantemente
per la sua persecutrice, per le monache di San Siro, per i Della Porta e i Vidalta,
per i Guelfi e i Ghibellini, per la città e la diocesi di Piacenza e
per l'intera Chiesa Cattolica. Ma l'esperienza scosse la sua anima. È
meglio costruire nuovamente Nel 1210, venne da lei una fanciulla di nome Carenzia,
figlia del Visconte Oberto capo di una delle prime famiglie di Piacenza. La
giovane aveva ricevuto un'ottima istruzione: ed aveva una bella cultura sulle
lettere e le arti liberali, ed era assai dotta in filosofia e persino in teologia.
I pettegolezzi corsi in città diedero a Carenzia l'occasione di una prima
visita al convento, ma solo l'interesse per Dio la fece ritornare da quella
badessa, adesso così preoccupata, per ciò che avveniva dentro
e fuori il suo dominio. La sorella del Vescovo non aveva soltanto convinto il
fratello che Franca non era la persona adatta a governare San Siro, ma aveva
persuaso le consorelle a non seguire Franca nello spirito di nessun compromesso
. Quando Carenzia sedette in parlatorio accanto a quella monaca tanto perseguitata,
non ne udì altro che lodi a Dio e insegnamenti sul modo di pregare. Subito
Franca scoprì nella figlia di Oberto, così dotata, uno spirito
affine al proprio, e le confidò il segreto del suo cuore: governare un
convento in cui San Benedetto si sentisse a casa, come lo era stato a Montecassino,
e dove la sua Regola venisse esattamente osservata. Carenzia discusse la questione
con lei, servendosi di tutta la filosofia e la teologia che le avevano insegnato.
Subito comprese che lungi dall'essere una pura formalista legata alla lettera
della Regola per amore della lettera, Franca era piuttosto desiderosa di vivere
alla lettera e in profondità le parole dei suoi voti, per amore della
gloria di Dio. Lo scambio delle idee fu vicendevolmente proficuo e presto Carenzia
si sentì ardere dal desiderio di glorificare Dio, come aveva accennato
Franca, e Franca si sentì infiammata di gratitudine verso Dio per averle
mandato un'anima così intelligente, simpatica, entusiasta ed energica;
il sollievo che la Madonna le aveva promesso. Essa l'avrebbe aiutata, e anzi
sarebbe diventata una vera sorella per lei, poiché già ne condivideva
il cuore. Durante tutto l'anno 1211, queste visite consolanti continuarono;
continuò anche l'opposizione dall'interno e la condanna dall'esterno.
Ma un giorno Carenzia si precipitò da Franca con una grande idea. Disse
alla tormentata badessa, che la risposta a tutti i loro desideri si trovava
nella forma di vita Cistercense e che vi era un convento di monache Cistercensi
a Rapallo. Essa sarebbe andata là, ne avrebbe imparato gli usi, assimilato
lo spirito, poi sarebbe ritornata a San Siro e avrebbe aiutato Franca nella
riforma del convento. Franca ascoltò quasi senza respiro: benché
non volesse rivelarlo alla giovane amica, ardente ed entusiasta, Rapallo ed
il monastero Cistercense erano stati per anni il suo sogno. Mentalmente ringraziò
Dio per aver ispirato l'idea a Carenzia, facendo in tal modo avverare il proprio
sogno, almeno per procura. Poi accadde una cosa singolare: mentre le, due donne
parlavano di Citeaux, due monaci Cistercensi vennero verso di loro. Cercavano
un alloggio per la notte, poiché per ordine del Papa dovevano condurre
una crociata nel Nord Italia, contro gli Albigesi !!! I monaci ricevettero alloggio,
e le monache incoraggiamento; esse infatti li misero immediatamente al corrente
delle loro idee e dei loro piani. I due Cistercensi furono sorpresi dalla somiglianza
della posizione di Franca a San Siro con quella di San Roberto a Molesme, più
di un secolo prima. Essi parteciparono al complotto e aiutarono il più
possibile Carenzia nei suoi progetti, consegnandole lettere di raccomandazione
per la badessa di Rapallo. Il giorno seguente, proprio al momento della partenza,
ricordarono a Franca che gli inutili tentativi di Roberto per riformare Molesme,
condussero alla fondazione di Citeaux; per cui se avesse dovuto sperimentare
una simile frustrazione a San Siro, forse poteva significare che avrebbe raggiunto
il vero successo seguendo l'esempio di San Roberto. Dopo aver dato quel saggio
consiglio, partirono. Anche Carenzia partì... Alla fine del 1213, il
Visconte Oberto, ricevette da Rapallo la richiesta di inviare una scorta; la
figlia voleva ritornare a Piacenza, e le figlie dei nobili dovevano essere,
secondo l'uso, accompagnate. Grande fu la gioia nel cerchio degli amici del
Visconte, quando udirono che sua figlia, così brillante, sarebbe arrivata
presto a casa. Molti gentiluomini ne furono vivamente interessati, ed alcuni
spiriti più intraprendenti parlarono addirittura alla Viscontessa di
matrimonio. Carenzia, anche da lontano, creava una vera emozione fra gli amici
del Visconte. Ma questo non fu niente, paragonato alla sorpresa suscitata, dopo
il suo arrivo, dalla notizia che non solo era già fidanzata, ma perfino
sposata, poiché si era votata a Gesù Cristo per essere la vergine
sposa dell'Agnello di Dio. Non avrebbero dovuto meravigliarsi, specie dopo la
sua intimità con Franca e il suo anno di soggiorno a Rapallo; invece,
si meravigliarono per lo meno i gentiluomini in età da sposarsi. Il Visconte
stesso non si riprese finché Carenzia non gli espose il suo piano di
introdurre a San Siro le abitudini Cistercensi. Allora scosse il capo: conosceva
la natura umana, conosceva le donne italiane, conosceva i Guelfi e i Ghibellini.
Così un giorno prese Carenzia in disparte e le disse: Carenzia mia, il
tuo vecchio padre può essere uno sciocco in molti casi, non conosce tutta
la filosofia e la teologia che tu hai studiato, ma conosce un po' la natura
umana. Così desidero che tu lo ascolti. - La fanciulla approvò
col capo. Il Visconte proseguì: - Io ho un piano che aiuterà il
tuo. Ogni centesimo che sto per darti come dote, servirà a realizzarlo.
Tu vuoi farti Cistercense. Lo puoi; ma se ascolti il tuo vecchio padre, l'unica
maniera per attuare il tuo desiderio, è di prendere il denaro che offro,
costruire un nuovo convento, e là cominciare dagli inizi con le vostre
pratiche Cistercensi. Le case riformate rivelano sempre qualche cosa dell'originale.
È meglio costruire da capo. Questo discorso fece volare Carenzia dalla
badessa Franca, e assieme lo discussero. Allora Franca pregò sempre più.
Dapprima tentò alcune riforme dentro al convento; non attecchirono. Essa
pregò ancor di più. Poi nel 1214, domandò a Fulco, nuovo
Vescovo di Piacenza, il permesso di lasciare San Siro, allo scopo di fondare
un nuovo convento. La ragione addotta era la stessa data da Roberto di Molesme,
nel 1098: Per poter meglio osservare la Regola che aveva fatto voto di vivere
. Grimerio era morto in esilio a Cremona nel 1210, mentre Piacenza era ancora
sotto l'interdetto papale. Gli era intanto successo Fulco. Non risulta se egli
fosse Guelfo o Ghibellino, ad ogni modo accolse la richiesta di Franca. Discorsi
eccitati circolarono nella società di Piacenza alla notizia che Franca
lasciava il monastero di San Siro. Ma quando fu noto che non solo Carenzia andava
con lei, ma aveva anche guadagnato alla sua causa una mezza dozzina, di fanciulle
della nobiltà, sia di parte Guelfa che Ghibellina, le quali si dichiaravano
pronte a seguire Franca e seriamente desiderose di diventare monache Cistercensi,
la società di Piacenza fu scossa fin nel profondo. I genitori delle nuove
aspiranti, una volta accettata la situazione, cominciarono a gareggiare fra
di loro, offrendo terre, vigneti, case e bestiame. Franca ne fu confusa; finalmente
accettò un luogo appartato a trenta miglia dalla città, chiamato
Monte Lama. Il luogo era sufficientemente solitario da soddisfare le prescrizioni
Benedettine, e la casa abbastanza abitabile per quelle che dovevano vivere al
modo Cistercense; ma il suolo era refrattario. L'Abate del monastero di Chiaravalle
della Colomba, che era stato designato protettore dell'impresa, ne vide la difficoltà
e prontamente consigliò di traslocare. Una nobildonna di Piacenza gli
aveva donato alcune proprietà appena a tre miglia dalla città.
Non sarebbe stato così appartato come Monte Lama, ma il terreno era molto
più fertile. Franca declinò l'offerta, e il suo secondo tentativo
fu fatto a San Gabriele di Valera; là il terreno era molto migliore.
Una comunità Cistercense avrebbe potuto viverci con un certo agio, ma
non molto lontano vi era un convento chiamato Ponte Trebbia, che era stato recentemente
affiliato all'Ordine di Citeaux, per cui il Capitolo Generale fu contrario ad
una fondazione permanente a Valera. Franca sarebbe rimasta perplessa dai procedimenti
della Divina Provvidenza, se non avesse sempre creduto, che Dio conosce il meglio
e ha il suo momento per ogni cosa. La soluzione, comunque, non giunse così
pacificamente. Essa pregò nella quiete. Un giorno Carenzia entrò
impetuosamente da lei, eccitata, gridando che suo fratello le aveva proprio
allora lasciato in testamento una proprietà a Pittòlo , a più
di dieci miglia da Ponte Trebbia. Così avvenne, che il primo convento
Cistercense vicino a Piacenza fu chiamato col nome singolare di, Santa Maria
de Tertio Passu. Il 23 Marzo del 1217 il Vescovo Ugo Cossadoca, pose la prima
pietra della chiesa. La prova di Franca durata quasi vent'anni era finita: essa
aveva il suo convento, la sua fervente comunità, e tempo per la preghiera.
Una veglia singolare. Tuttavia, la giornata non le bastava. Ogni sera soleva
chiedere alla Sacrestana le chiavi della chiesa. Sembrava una richiesta normale,
poiché la badessa teneva praticamente in suo possesso tutte le chiavi
della casa; ma non trascorse molto che Carenzia si insospettì. Come priora,
essa era responsabile della salute della badessa. Franca, aveva sempre sofferto
di disturbi di stomaco. Carenzia, una volta, riuscì a farle considerare
l'opportunità di prendere, per il suo male, alcune medicine, cioè
una terapia a base di erbe locali. Franca non fu entusiasta e non aderì
pienamente. Con qualche esitazione si avvicinò alla tavola sulla quale
stava il piatto con le radici già cotte. Preferirei soffrire per amore
di Cristo ed abbandonarmi interamente nelle mani del Medico Divino - esclamò.
È stato appunto il Medico Divino a dare le proprietà medicinali
a queste radici - fu la pronta risposta di Carenzia. - Vuole che tu ne usi,
ne sono certa. Non ne sono così sicura - esclamò la badessa sorridendo
- ma vediamo quello che succede. Prese il coltello e cominciò a tagliare
le radici per poterle mangiare. Appena il coltello si affondò in esse,
ne sgorgò del sangue. Franca posò tranquillamente il coltello
sulla tavola, incrociò le braccia e disse dolcemente: - Ora credo di
conoscere quello che prescrive il Medico Divino. Quando la badessa notò
che Carenzia si adombrava, sorrise più apertamente e disse: - I rimedi
della medicina sono inutili, Carenzia, quando Dio manda una malattia per la
salute dell'anima. I miei dolori servono a purificarmi. Ma tu soffri talmente
- obiettò la priora. Franca, si voltò, e mentre stava per lasciare
la stanza, disse: - È molto meglio soffrire in questa vita che nell'altra.
Questo pose fine ai tentativi di Carenzia di indurre la badessa a prendere medicine,
ma non le impedì di continuare a vegliare sulla salute di Franca. Quando
notò che i suoi occhi diventavano sempre più infossati, decise
di investigare sulla voce che aveva messo in giro la sacrestana, rimarcando
evasivamente. È molto probabile che la Madre usi le mie chiavi, quando
noi dormiamo. Carenzia rimase alzata una notte per osservare. Sicuro! Non era
ancora trascorsa un'ora da quando tutte si erano ritirate, che la badessa si
alzò senza far rumore e lasciò il dormitorio. Carenzia si mise
in ascolto. Udì le chiavi girare nella toppa della gran porta della chiesa,
e udì il click della porta, quando si rinchiuse dietro la badessa; poi
silenzio. Il giorno seguente Carenzia usò della propria autorità
di priora e disse alla sacrestana che avrebbe tenuto con sé, per alcune
settimane tutte le chiavi di accesso alla chiesa e alla sacrestia. Ma una notte
fu svegliata dal rumore delle porte della chiesa che si aprivano e richiudevano.
Si toccò le tasche: le chiavi erano là. Guardò il giaciglio
della badessa: la Madre non c'era. Carenzia sospirò, si voltò
dall'altra parte e cercò di dormire. Che utilità c'era nel cercare
di prendersi cura di una persona che poteva fare magie e miracoli? Lo stesso
accadde nelle notti seguenti. Quando il cappellano, un monaco di Chiaravalle
della Colomba, venne a confessare le monache e a tenere conferenze spirituali,
la priora lo prese in disparte, gli confidò le sue esperienze e chiese
che cosa doveva fare per curare la salute della badessa. Il buon sacerdote rise
della storia e le disse che sognava. Carenzia lo invitò a rimanere perché
potesse costatare lui stesso. Dopo aver consultato il suo abate, il monaco acconsentì.
Una notte, egli si nascose in chiesa, all'insaputa di tutti, eccettuata Carenzia,
. Dal suo nascondiglio osservò Franca aspergere le monache ad una ad
una, mentre in un'unica fila uscivano dalla chiesa e si avviavano al dormitorio.
Vide la badessa stessa andarsene dopo una breve visita al Santissimo Sacramento,
vide chiudere la grande porta e udì il click della serratura. Aspettò
alcuni momenti, poi andò a ispezionare le porte. Non c'era dubbio, erano
chiuse a chiave. Allora aspettò nell'oscurità. Il monaco, mentre
aspettava, parlò con Nostro Signore nel Santissimo Sacramento, e dopo
aver riso di se stesso, disse a Nostro Signore che egli non era altro che uno
stupido monaco, per aver accettato un simile patto con la priora. Mentre le
ore lente scorrevano pesantemente, chiese al Signore di perdonare la sua stupidità
e di accettare in riparazione il tedio di quella notte. Allora udì aprirsi
le grandi porte della chiesa; non aveva udito introdurre, né girare alcuna
chiave nella toppa. Guardò; e là, mentre le porte si richiudevano,
vide la badessa, le mani ancora nelle pieghe delle lunghe maniche, camminare
nella chiesa. Quando quelle possenti porte si richiusero quietamente dopo l'entrata
della badessa, gli scarsi capelli del frate dovettero rizzarglisi in testa e
il suo cuore battergli in gola. Il rimanente della storia è meglio raccontarlo
ispirandosi ad un quadro appeso nella chiesa di Piacenza dedicata a Santa Franca,
e che dovrebbe esservi ancora, a meno che non sia andato distrutto dalla guerra.
Esso raffigura Franca inginocchiata dinanzi ad un altare con le braccia allargate
in forma di croce. Proprio di fronte a lei sull'altare è posato un cranio
umano, mentre a destra un enorme breviario precariamente in bilico sull'orlo
dell'altare è unito con un laccio alle braccia spalancate e sollevate
della monaca. Il significato di questo è evidente. Come Mosè sulla
cima della montagna, Franca si sarebbe stancata a pregare, e se le sue braccia
si fossero minimamente abbassate, lo stesso avrebbe fatto l'enorme breviario,
e la caduta sarebbe stata sufficiente a ridestare qualunque badessa addormentata.
In un angolo si vede il monaco tremante. La sua Preghiera come l'Olio che alimenta
la lampada arde di passione, per Cristo, Franca non riusciva mai a pregare abbastanza.
La spiegazione sta non solo nell'amore del suo cuore straordinariamente amante,
ma nella stessa natura della preghiera che usava di più. Essa non supplicava
il Signore notte e giorno; questa, secondo San Tommaso, è preghiera nel
senso più stretto, e per stretto egli intende limitato. Ma Dio sa, e
noi sappiamo che dobbiamo domandare. Cristo stesso, richiesto dagli avidi Apostoli
di insegnar loro a pregare, diede ad essi ed a noi una preghiera che è
piena di suppliche, ed anche di lode. Quando si conosce Dio, Lo si ama; quando
Lo si ama, si deve Lodare. Questo è il segreto dell'incessante preghiera
e del pregare di Franca, e questa è l'anima stessa della vita Cistercense.
La miglior descrizione di una contemplativa è quella di un'anima sempre
prostrata davanti a Dio, adorandolo con amore e amandolo con adorazione. Ma
il convento di Pittòlo aveva appena finito di organizzarsi, e il suo
andamento procedeva senza scosse, quando le Benedettine di San Siro ripeterono
la storia, imitando i Benedettini di Molesme che un secolo prima avevano chiesto
ritorno di San Roberto da Citeaux; le monache ora, chiedevano il ritorno di
Franca da Pittòlo . La loro richiesta era basata sugli stessi motivi
dei monaci; ma la storia non si ripeté, poiché questa volta il
Papa non esaudì il desiderio delle Benedettine Nere. Si degnò
invece di togliere l'interdetto a Piacenza, e lasciò Franca alla sua
incessante preghiera. Ciò accadde nel 1216. Dio allora le concesse una
pace quale non aveva più conosciuto dal 1187, quando per la prima volta
aveva adottato il principio del nessun compromesso . Franca si trovava
press'a poco nel mezzo di una vita normale, ma in realtà era vicina al
tramonto; Dio, infatti, aveva decretato che dovesse entrare nell'eternità
prima di aver terminato i 45 anni . Durante il periodo pasquale del 1218, Franca
sollecitò Carenzia a convocare Padre Giovanni, abate di Chiaravalle della
Colomba, poiché sentiva che la sua nuova malattia era differente da quella
che aveva così spesso tormentata lei e mosso a pietà la priora.
L'abate venne, udì la sua confessione generale, le diede l'Estrema Unzione,
alla presenza della comunità, poi ascoltò una sua esortazione,
che egli non avrebbe mai potuto sperare di superare, tanto era solidamente spirituale
e così giudiziosamente pratica. Egli non poté non meravigliarsi
della comprensione intellettuale che questa monaca aveva avuto per la Regola
di San Benedetto e del virile indirizzo con cui aveva improntata l'esortazione.
Continuate a camminare nel timor di Dio - fu la sua prima esortazione, e Padre
Giovanni capì che stava ascoltando una creatura, per cui il timor di
Dio non era altro che amore. L'esortazione seguente lo dimostrò: - Siate
sempre grate a Dio per la grazia della vostra vocazione. - Poi venne la forza
della sua vita: - Mirate sempre ad una più alta perfezione nell'osservanza
della Regola e degli Statuti di Citeaux. Non venite a compromessi né
con l'una né con gli altri. - Tutti si meravigliarono dell'animazione
che essa mise nelle poche frasi seguenti: - Siate convinte che lo zelo nella
preghiera è cibo e forza per l'anima, protezione contro i pericoli di
tutti i generi, e difesa nei momenti di tentazione. - Come poteva esprimere
bene queste verità, dopo averle vissute per trent'anni! Poi toccò
il vertice della vita Cistercense: - Coltivate la vera carità fraterna,
la umiltà e l'obbedienza. Queste virtù apriranno le porte del
Cielo, poiché saranno l'olio delle vostre lampade che arderanno luminose
quando voi, come vergini sagge, sarete svegliate dall'arrivo dello Sposo. La
sua lampada ardeva di luce abbagliante quando Cristo andò da lei il 25
aprile 1218. Fu seppellita davanti all'altare, dove aveva pregato continuamente
giorno e notte: era un altare dedicato all'arcangelo guerriero San Michele,
che come lei non era venuto a nessun compromesso . E là rimase
fino al 1266. Poi sebbene nessun breviario fosse caduto dall'altare, si alzò
lo stesso. Infatti quell'anno nella festa di San Bernardo quando le monache
si riunirono per Mattutino, trovarono la loro chiesa pervasa da un profumo che
l'incenso non aveva mai esalato. Mentre l'Ufficio proseguiva, il dolce aroma
si fece tanto acuto da divenire quasi opprimente. Le monache eccitate mandarono
all'abate Guglielmo Quattrocchio,
di Chiaravalle della Colomba, un messo veloce che riferisse del soave aroma
che sembrava provenire dalla tomba di Franca. Quando il messo trafelato irruppe
nella stanza dell'abate, Padre Guglielmo fece un
gesto che gli impose il silenzio e disse: So perché sei venuto. La badessa
Franca è già stata qui per dirmi come sia volontà di Dio
che le sue spoglie siano onorate più degnamente. Padre Guglielmo
con due monaci partì per Pittòlo . Giunti alla porta della chiesa
sentirono il soave profumo e videro un gruppo di monache con gli occhi grandi
per lo stupore. L'abate indossò il camice, il cingolo e la stola e invitò
i due monaci a esumare il corpo. A questo punto la badessa intervenne per dire
che Carenzia aveva insistito che le spoglie di Franca fossero sigillate in una
bara di piombo e seppellite molto in profondità, per impedire che le
monache di San Siro potessero farle rapire. Ma mentre parlava, uno dei monaci
colpì il metallo che non si trovava nemmeno a un piede sotto il pavimento
della chiesa. L'abate Guglielmo guardò la
badessa. Essa sollevò semplicemente gli occhi e le mani al cielo e mormorò:
È un miracolo! Padre Guglielmo divenne cauto;
ordinò ai monaci di smettere gli scavi, e alle monache di circoscrivere
con una corda l'area dove si trovava la tomba. Poi mandò a dire al Vescovo
di Piacenza di convocare i più saggi della diocesi per un incontro speciale.
Il 28 agosto, una brillante assemblea ecclesiastica con mitre, croci pettorali,
anelli, rocchetti, semplici cotte e comuni cocolle, si raggrupparono davanti
all'altare di San Michele per vedere sollevare ed aprire la bara di piombo.
In essa trovarono un corpo piuttosto ben conservato e immerso in un olio odoroso.
Con esso si riempirono più fiale di quelle che la vedova di Sarepta avrebbe
mai sognato di riempire, e successivamente furono attribuiti a quest'olio più
miracoli che non vi fossero fiale. Il fatto eccezionale ebbe l'effetto desiderato:
il suo corpo fu sepolto con maggior decoro, e Franca nel 1278 fu Beatificata.
Nel 1559 la badessa Lucia di Pittòlo fece costruire una chiesa in Piacenza
e la dedicò a Santa Franca, la donna che
non volle ammettere nessun compromesso, perciò visse e morì come
ogni vero monaco o monaca Cistercense dovrebbe vivere e morire, sempre parlando
con Dio.
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